La maestra
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La maestra

Per cinque anni, tre volte a settimana, ho raccontato i miei segreti a una donna libanese di origine greca, nata a Francoforte, specializzata a Parigi. Parlavamo in inglese, in un piccolo studio al terzo piano di un palazzo moderno davanti al porto, dove arrivavo puntuale alle dodici il lunedì, il mercoledì e il venerdì. 

A mezzogiorno andava via la luce a Beirut e nei palazzi dei borghesi scattava il generatore, così a volte, nell’interregno, mi ritrovavo bloccata nell’ascensore a osservare il mio riflesso nello specchio. 

All’epoca, francamente, ero uno schianto ma non era uno schianto che vedevo nello specchio. La vergogna è genealogica, a quanto pare, e a me pareva davvero di avere il mento sporgente, gli occhi un pò strabici, il collo da giraffa, e smettevo magicamente di sentirmi sbagliata solo quando mi sdraiavo sul vellutino marrone del divano con il fazzoletto di carta sul cuscino. 

Ricordo che i primi sei mesi ho pianto durante tutte le sedute e che gli ultimi sei mesi abbiamo invece praticamente sempre riso, anche se poi cosa andasse davvero accadendo lì dentro è cosa che necessita di due, tre, quattro vite per capirlo, questa certamente non è sufficiente. 

Quel che so, è che la persona che scrive queste righe non è nata a Matera nell’aprile del 1970, bensì a Beirut tra il 2005 e il 2010 nei tre giorni a settimana in cui bussavo a mezzogiorno alla porta di H.

Lei era magnifica e cangiante, non sapevo mai se sarebbe stata bionda o rossa o corta o cotonata o liscia la donna che mi avrebbe accompagnata dentro lo studio.

Sul suo lettino ho seppellito amanti, dissotterrato morti e imparato che la vita è un gioco: che fai resti in panchina? Non me l’ha mai detto direttamente, ma ancora oggi davanti a un bivio, sento la sua vocina che dice: “Sii intrepida!”

Anche il mio mantra – perché no? – me l’ha insegnato lei. 

Ero lì travolta da una tempesta di emozioni, a darmi addosso per la mia sensibilità  – darci addosso è uno sport molto diffuso tra noi ragazze elettriche – quando H pacata e tranquilla, quasi sorniona, fa: “Float!”, che poi vuol dire galleggia e adesso so che quando mi sembra di essere sommersa vado a camminare almeno non faccio danni.

L’ultima volta che le ho parlato, ero indecisa se lasciare il settimanale per cui lavoravo, cosa che tra l’altro le dicevo da anni, e lei mi ha risposto pacata che Steve Mc Queen, nel film Papillon, ha certamente rischiato di rompersi il collo lanciandosi dalla scogliera ma quel salto temerario dall’isola del Diavolo era la sua unica chance di libertà.

A Pasqua, ho scritto in inglese alla mia greco-araba-franco-tedesca per farle gli auguri e lei ha risposto: “Ti stai inventando storie?”

Non le ho ancora detto che, alla fine del mio romanzo, la ringrazio.