Pyongyang
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Pyongyang


A Nordest di Pyongyang, sulla collina Moran, la domenica è dolce.
Il parco è il più romantico della capitale, con laghetti di loto e il profumo di acacia.
Folle di coreani ballano vecchie canzoni sotto ampi gazebo; a danzare sono soprattutto anziani, con movenze sinuose delle mani, che disegnano ghirigori nell’aria. Una signora, avrà 90 anni, balla, con le trecce bianche e il vestito tradizionale e fa un inchino e sorride, quando mi vede, un sorriso enigmatico.
E’ uno dei momenti di rara poesia del mio viaggio in Nord Corea, il più feroce degli stati.
E’ da quando sono arrivata che mi inchino davanti alle statue dei leader della patria, per almeno cinque secondi, a 90 gradi. Che ogni mio passo, sguardo, parola, viene monitorato da tre guide, che dormono come me all’hotel Yanggakdo, l’hotel delle spie e degli stranieri trattati alla stregua di infiltrati. Che ogni passo, sguardo e parola delle persone che incontro, viene altrettanto vagliato, e tutti ripetono gli stessi slogan, con una precisione da orsi ammaestrati.
L’altro giorno, ho visitato il Palazzo dei Bambini.
E’ un’immensa costruzione di marmo, squadrata, in perfetto stile imperiale. Negli sterminati saloni risuonano le liriche di Pi Ba Da, l’opera più nota, Mar di Sangue, in italiano. Nelle varie sale, studiano 5000 adolescenti, i figli dell’élite del governo Nordcoreano.
E che pena ho provato, a vederli intonare inni fascisti, su uno sfondo di immagini marziali: navi da guerra, missili nucleari. E che disagio ho sentito, visitando l’asilo in cui crescono gli eredi dei dirigenti del Partito, che vedono i genitori solo il fine settimana. E’ un monumento all’infanzia rubata: i bambini erano troppo perfetti, troppo rigidi, troppo pronti a ripetere con zelo la lezione sulla filosofia Juche, l’ideologia staliniana del giovane satrapo Kim Jong un. E anche le giostre del parco, mostrata con orgoglio dalla direttrice, erano satelliti e razzi, dentro cui i bambini giocavano.
Se c’è una cosa immonda, di tutte le dittature, è la corruzione degli innocenti; e penso ai piccoli combattenti, addestrati dall’Isis, ai quali è stata strappata la vita e ora vagano, smarriti, per i campi profughi, negli occhi l’orrore del sangue, che li ha segnati.
Per questo è stata un sollievo, la gita sulla collina Moran. Ci sono andata con le mie guide, con Kim, in particolare. Kim è un ragazzo di 25 anni che studia italiano, a sua volta perfettamente ammaestrato; esulta a ogni lancio di missile e nel tempo libero beve soju, un distillato di riso da 60 gradi.
Su in alto, all’ombra delle acacie, c’erano leggiadri vecchietti, memori di un passato più soave,
che esorcizzavano il presente danzando nella natura immortale; e ancora più in alto, in cima alla collina, c’erano gli adulti, che cantavano e cantavano, figure instabili, vagolanti per il pendio, incredibilmente ubriachi.