Kunming
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Kunming

La prima volta che ho visto Aisikaier Wubulikasimu era una sfrontata sagoma su un cavo, tra le nuvole di Kunming. La traversata, mi disse poi, non era niente di speciale, il filo teso a venti metri di altezza tra due bizzarre casette di un parco a tema. A colpirmi fu la sua destrezza da giocoliere,  in baldanzoso equilibrio sulle nostre teste. 

Feci molte foto quel giorno, che riguardai più volte: una virgola d’uomo danzava  incurante della vita sul suolo, leggiadra impronta umana sulla volta del cielo. 

Scoprii quasi subito chi fosse davvero. 

Aisikaier Wubulikasimu aveva 42 anni, ed era di Kashgar, nella turbolenta provincia musulmana di Xinjiang. Apparteneva alla minoranza degli uiguri, a una terra oppressa dal giogo di Pechino, ma non era questo il motivo per cui la gente accorreva a vederlo. 

“E’ il più grande funambolo cinese”, spiegò lapidario Benny Shaffer, un suo amico, antropologo americano di Harvard.  

Il giorno in cui aspettai che scendesse dalla fune, m’invitò nel suo alloggio, una casetta bassa nel retro del parco, la cui peculiarità era la massiccia presenza di nani. Affettò un gustoso melone con ciò che mi parve un’ascia e mostrò le sue medaglie, fiero.

Il suo nome figurava tre volte nel Guinness dei Primati: vedi, mi disse, chi sono. 

Era il più veloce funambolo in circolazione: nel 2009 aveva corso i cento metri tra due picchi dello spettacolare monte Taimu in 44.63 secondi e nel 2013 aveva battuto se stesso, a Wenzhou, percorrendo la stessa distanza, in 38.86. Un mese dopo, aveva fatto una cosa ancora più pazzesca: era riuscito a camminare tra due mongolfiere. 

“E’ stato splendido!” dice. “Ho fatto costruire una fune speciale, un’asta di metallo, e anche le mongolfiere dovevano essere speciali, pesare meno di 450 chili, il trucco per essere forti e flessibili ma stabili è la leggerezza. Adoro fare cose che gli altri non fanno. I miei colleghi sono sazi”. 

Sazi?

“Si accontentano di camminare da qui a lì, io voglio andare oltre”.  

I limiti esistono nell’anima di chi è a corto di sogni, scrisse un altro grande acrobata, il francese Philippe Petit, l’uomo che nel ’74 camminò intrepido tra le defunte Torri Gemelle di New York. Aisikaier Wubulikasimu si è esibito a 1500 metri di altezza, un’enormità: le Twin Towers di Manhattan erano alte “solo” 500. 

“Il segreto è non pensare a niente”, spiega. “Guardo sempre e solo davanti a me”.

Nei giorni seguenti, lo vedrò più volte avanzare lieve, il corpo sciolto, la spalla che istruisce la gamba, la gola che placa il tallone e ammorbidisce i legamenti, la tensione del collo a 

correggere l’anca, e il centro, il centro immobile, che non si muove. 

Lo osservo e all’improvviso mi commuovo. 

Adusa alle bassezze dell’animo umano, alle nefandezze commesse dagli uomini, per orgoglio e ambizione, per una volta mi confronto con una diversa esplorazione dell’estremo, con una mirabolante ascensione, con l’umana ricerca di perfezione.  

Una ricerca che Askar comincia presto. Suo papà lavorava in un mulino, sua mamma era casalinga, c’era tanta miseria a Kashgar, ma c’era anche, dietro l’angolo, una scuola per acrobati. La città era un covo di ribelli, ma anche di artisti e talentuosi equilibristi, vivaio di circhi e fenomeni da baraccone. Aisikaier Wubulikasimu era un piccolo barone rampante, “vivevo sugli alberi”, dice, “saltavo tra le cime”. 

 A cinque anni mise il naso dentro la scuola per acrobati. “L’istruttore diede un’occhiata al mio corpo e disse: potresti essere un buon funambolo. Provai. Mi piacque”.  

Cadde sul palo che reggeva la fune e la rete di protezione gli tagliò la gola: “I miei così seppero dove sparivo tutto il tempo”. 

Si allenava sempre, con il vento, con la pioggia, con la neve, non c’era modo di farlo scendere. 

Imparò presto che il pericolo è parte integrante della traversata. Il passo falso aspetta a un centimetro.  

“C’era questa ragazza, di Xinjiang. Avevamo studiato insieme. Voleva entrare anche lei nei Guinness. Si stava allenando, su un burrone, sospesa a 70 metri. Il cavo si è mosso, c’era vento, è caduta, è morta. Si è spiaccicata. L’ho vista. Ho avuto paura. Sono uno che si impressiona. Quando vado in ospedale a farmi un check up sono terrorizzato. Mi piace cantare e ballare. Amo la vita, odio la morte”. 

E cosa ha fatto dopo che è morta la sua amica?

“Non sono salito sul filo per una settimana”. 

Una settimana e basta?

“Una settimana è una vita”.  

La sera, a cena, Aisikaier Wubulikasimu mi racconta della volta in cui si è esibito tra due punti della Grande Muraglia cinese, a Pechino, e del mattino in cui a Hubei è salito sulla corda nel mezzo di un temporale. “Le condizioni non c’erano, ma c’era troppa gente e non volevo deluderla e sono uscito lo stesso e un fulmine si è abbattuto sul cavo e mi sono preso una scossa pazzesca” dice mimando con il petto e con le mani un elettrico stupore. 

Vuole morire? 

“Moriremo tutti. Chi lo sa come. Perché, nel frattempo, non vivere?”

Della volta in cui è caduto, c’è il video su internet. Ma lui non me lo dice subito, forse perché gli ho già chiesto tante volte se sia pazzo e mi ha già risposto tante volte siamo pazzi tutti. 

Si era messo in testa di cimentarsi con una camminata della morte, all’indietro, bendato, su un cavo inclinato a trenta gradi. Una volata di 700 metri a un’altezza di 200, tra due falesie, sopra una gola. 

Una fune di 700 metri non disegnerà mai una linea regolare poiché il  vento tenderà a farla oscillare. Il 7 luglio 2012, nella provincia di Hunan, in località Yueyang, Aisikaier Wubulikasimu si veste di bianco, con il foulard rosso sul volto sembra un marziano. 

“C’erano 40 gradi. Il pubblico era rumoroso,  decine di migliaia di persone. Ero da 58 minuti in ballo, mancava poco. Non sapevo quanto in alto fossi, se l’avessi saputo sarei morto”. 

Ride. 

 “Ero stanco. Faceva caldo. Mi ero seduto un attimo. Proprio mentre mi stavo alzando  qualcuno tra la folla sbatte contro uno dei pali che reggeva il cavo. La corda oscilla. Scivolo e con le mani sudate non riesco ad aggrapparmi. Cado e mentre cado penso chissà se muoio. Cado senza vedere niente, fino a quando mi schianto. Mi tolgo le bende e finalmente vedo l’albero che ha interrotto il mio volo, il pino che mi ha salvato la vita”. 

Incredibilmente, non si fa niente: “Non era la mia ora”.

Torna al parco a tema in cui lavora sconvolto, e i nani sono così affettuosi e commossi e dentro gli si scioglie un grumo ma non dice niente,  poiché è arrivata una televisione e il giornalista gli ha messo un microfono in bocca e lui non ha dichiarazioni solo uno sgomento che non ha parole.  

“Se avessi parlato avrei pianto. E allora per la prima volta dall’incidente ho mollato tutti e sono salito sul cavo e ho camminato di nuovo”.

E quella è stata la sua dichiarazione. 

“Si”. 

E ora?

“E ora sogno di correre tra  due aeroplani ma forse è impossibile, il vento sarebbe troppo forte. Forse tra due elicotteri?” Ci pensa, si anima, e muove le mani e ride e mi offre un  cioccolatino e spiega che invece una roba che vuole provare a fare, certamente, è sfiorare le nuvole, e magari la luna, a tremila metri.