Il guardiano del vulcano
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Il guardiano del vulcano

L’altra notte ho sognato Mbah Maridjan , il guardiano del vulcano Merapi. Era un omino fragile e fiero, il volto rugoso incastonato in un cappello nero.    

Trascorreva gran parte delle ore seduto a gambe incrociate, in meditazione. Cercava l’armonia tra il ferro e fuoco, la terra e il mare. Gli unici esseri con cui amava interloquire erano gli spiriti del vulcano. Era convinto che la guerra, o la pace, a Giava e non solo, fossero una questione di equilibrio tra il dentro e il fuori, tra il Creatore e il Creato. 

Per questo, meditava. Offriva al Merapi riso e fiori; diceva “non c’è bisogno di altro, per stare bene, non crede?” Riso e fiori. 

Alle offerte seguivano notti d’ascolto; s’inerpicava tra i sentieri torreggianti le valli verdi di piantagioni, e poneva l’orecchio vicino alle pietre per coglierne l’umore, per decifrarne il calore. Così, stabiliva se andare o restare: ciò che la natura, sua e del vulcano, gli chiedeva di fare. 

Ho pensato spesso a lui, a Kabul, dove mi trovo. Kabul è il posto più lontano dall’isola di Giava che abbia avuto la ventura di visitare. 

Le vie sono voragini; le donne ombre dolenti. 

A prevalere è il volto più orripilante dell’uomo, sepolto vivo sotto le macerie dell’universo, sotto il peso di soli e lune spenti, in frantumi. In Afghanistan, ci sono deserti i cui nomi ti dicono tutto ciò che c’è da sapere; Dasht i Marg, deserto della morte, Dasht i Jahanum, deserto dell’inferno. 

Le donne afghane, nei loro canti, non desiderano il paradiso di un dio guerriero; evocano petali e muschi di fiume e le roselline che nasceranno sulle loro tombe senza nome.  Forse è per questo che, l’altra sera, il mio pietoso inconscio ha riesumato il guardiano del vulcano. Era una forma di consolazione.  Avevo appena ascoltato una storia straziante, di una donna uccisa dal padre, in una pubblica radura, sotto gli occhi del figlioletto di 4 anni. Avevo pianto.  Ci sono paesi in cui le stelle, in cielo, sono tante quante le vittime innocenti della guerra. 

Ma tutto cambia, niente resta uguale. Un giorno finirà anche questa tragedia. Un giorno Kabul somiglierà a Giava. Non eravamo noi un tempo l’Antica Roma? 

Il vecchio guardiano del vulcano, nel sogno, mi ripeteva il suo mantra. “L’aura da cui dipende  l’equilibrio è la costante oscillazione tra il maschile e il femminile. E’ il mutevole rapporto di forza dell’anima”. C’è troppo maschile nel mondo, ho pensato al risveglio. 

Poi ho ricordato il nostro incontro. 

Mi aveva trascinata dentro una pozza naturale, una notte di plenilunio. Si era immerso dentro l’acqua gelida, assorto dentro una musica che solo lui sentiva. Era rimasto immobile a meditare per una buona mezz’ora; mi colpisce ora l’idea che secoli prima, in un’altra era, i buddisti meditavano, allo stesso modo, in Afghanistan. 

Tutto cambia, niente resta uguale. La sfida è mettersi gli occhiali, scrutare le curve del tempo, salvare il nobile, ammainare l’ignobile e, anche, magari, ascoltare il vulcano.

Kabul, 2013