Betlemme
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Betlemme

E’ da quando sono arrivata in Etiopia che non dormo. 

Non c’entra il fuso orario, e neppure il gallo che all’alba molesta la valle.  

La messa stanotte è cominciata all’una ed è andata avanti fino alle 9. 

Alla volta della grotta, nel buio più pesto, sono inciampata in un bimbo lacero accovacciato sulla roccia. Assieme ad altri piccoli, provava a vendere candele al notturno fiume di fedeli.

Ora è quasi mezzogiorno e dalla mia postazione sotto un sicomoro, macchie di arbusti spinosi bucano di chiazze d’ombra il manto giallo delle stoppie. Osservo le donne, curve sotto il peso di fascine e granaglie. Un uomo, avvolto nel tradizionale mantello bianco, spunta in cima al colle, le mani appoggiate a un bastone, preceduto da un paio di somarelli stanchi.  

Dietro la mia schiena il tronco è duro; sopra la mia testa le foglie disegnano ventosi ghirigori. Non avverto la stanchezza del viaggio. Credo sia in corso un processo di osmosi: mi trovo tra persone per cui la vita comincia ben prima che da Oriente l’astro di luce ci salvi dall’oscurità. 

Ci sono notti stellate da attraversare, passo dopo passo, per andare al mercato e al tempio, e giorni assolati di marce forzate alla ricerca di un pozzo d’acqua. 

Si sta, ad Hayk, come sugli alberi le foglie. 

Solomon, un uomo di queste lande, l’altro giorno mi ha detto che la prima parola in inglese che ha imparato, da piccolo, è stata: “fame”.  

La siccità, eterna nemica, è in agguato. Ciò che un tempo erano crisi decennali, con il riscaldamento globale sono diventate un incubo ricorrente, poiché  si vive di raccolto e di baratto, e se non piove non ci sarà il teff per impastare il pane. 

Per fortuna gli eremiti, su in montagna, lo sanno, lo sentono. 

Le loro previsioni del tempo pare siano più accurate di quelle dei nostri satelliti. Gli anacoreti non amano il mondo degli esseri umani; preferiscono la solitudine delle caverne montane. Scendono a Hayk una volta a settimana a rimediare un po’ di sorgo, e in cambio soffiano nell’orecchio di padre Kristos gli umori della natura.  

Non so se davvero ci prendano. Ma credo di aver capito perché questa gente lacera, che arranca sorridendo, sia molto più felice dell’umanità che incontro nel primo mondo. 

Sanno, l’hanno sempre saputo, che la vita è dura e non fa sconti. Nulla si aspettano dal governo, ma confidano in un Cielo amico e nelle loro forze, in ciò che fanno, giorno per giorno, onestamente, per se stessi e per chi li circonda. Ieri sera, sul ciglio di uno sperone, erano seduti tutti insieme in cerchio, uomini da una parte, donne dall’altra, avvolti nelle fute bianche. Discutevano delle faccende del villaggio, le nascite e le morti, chi avrebbe dato da mangiare alla vedova, la festa per il battesimo della piccola Betlemme.