Goa
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Goa

Stanca di guerre mediorientali, finisco a Goa, in India, a parlare d’amore. E’ la stagione dei monsoni, onde grigie ingrossano il mare. Un pomeriggio di pioggia conosco Uma. E’ stata la prima commentatrice femminista di Israele. Ha 45 anni e due bambini, da due uomini diversi. Uno è uno scrittore famoso, l’altro un lama buddista. Uno vive a Tel Aviv, l’altro a Calcutta. 

Lei si fa i fatti suoi, assieme ai figli, a Goa. Nel cortile di un tempio, al cospetto di una statua della Dea Cali, mi spiega che ci ha messo tempo e dolore a lasciarsi andare, a trovare una sua dimensione: “Ci sono stati anni in cui la passione mi dominava come un fascio di nervi. Oggi mi sono finalmente  abbandonata  a un’emozione che non mi dà tormento, né noia”.  

Mi porta in un bar, al mercato del villaggio. Dal nostro tavolo vedo donnine colorate, sedute sotto enormi ombrelli, vendere radici di loto. Sembrano serene. Uma segue il mio sguardo. 

Dice: “Per loro è tutto più facile. Vivono ancora in una società arcaica; hanno imparato da piccole a chinare il capo”. Lei non è mai stata il tipo, da qui le ferite: “Ho dovuto imparare che la serenità si raggiunge quando i sentimenti sono avvolti e contenuti dal pensiero.  Riflettici: il motivo per cui la Terra e i rapporti vanno in malora è lo stesso. Viviamo in un mondo di bambini. La gran parte degli esseri umani non cresce. Resta alla fase orale: azione e reazione, ta-bum, fino al massacro finale”.  

Uma mi presenta le sue amiche: sono tutte mamme, più o meno single.

C’è un’inglese, ex regina delle discoteche; una tedesca, astrologa cosmica;  e poi c’è Ester. Ha vissuto nel Sinai per dieci anni: “Nel silenzio del deserto  mi sono sentita per la prima volta viva”. Ha un marito, che vede poco: “Ha la passione della strada, e beve. Ho dovuto spiegargli che a casa può tornare se è sobrio, e lui ogni tanto lo fa, e per  qualche giorno stiamo assieme”. 

L’inglese approva. L’astrologa cosmica spiega che la cosa migliore è la vita-fai-da-te, un ciclico progredire per tentativi ed errori: “Non potrei mai vivere una vita protetta. Ho bisogno di gioire e di soffrire, di sudare d’estate e avere i piedi freddi d’inverno. In fondo gli uomini sono come i vestiti: si possono cambiare con le stagioni”.  

Rido. M’immagino una collezione di esemplari pret-a-porter di diversa taglia, nazionalità e colore. Le donne di Goa mi guardano come si guarda una bambina sprovveduta, una che ancora non c’è arrivata. 

“Ricordati una cosa: di irreversibile, nella vita, a parte la morte, ci sono solo i figli”, fa Uma.

Penso  alle mie amiche. Sono tutte o tormentate o annoiate: sarà lo spirito del tempo. Le più coraggiose hanno scelto di essere madri, rinunciando al padre: una è scappata a New York in grembo il bimbo di un ragazzo libanese; un’altra minaccia una trasferta in una banca del seme. Ester e le altre annuiscono. 

Di più, consigliano: “Procurati un po’ di goccioline bianche e fallo anche tu, non aspettare”. 

Torno a Beirut, e alle sue guerre, in testa una domanda. 

Che n’è stato dell’amore?