Il funerale dei cieli
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Il funerale dei cieli

Non so dire cosa sia stato. Forse l’aria rarefatta, o lo sguardo limpido di un abate buddista che non aveva mai visto altro, al mondo, se non la sua montagna, eppure il  mondo ce l’aveva dentro, più di me, che dormo con la valigia accanto. Faceva freddo, in Tibet, questo senz’altro. Mi sono svegliata all’alba. Ho preso un bicchiere d’acqua calda, e le pillole d’ossigeno per respirare meglio a 5000 metri, e sono uscita ad ammirare i falchi, che giocavano in cielo nell’orizzonte rosa.  

I monaci già studiavano i testi sacri; le candele già bruciavano burro rancido di vacca. Ho percorso lo stretto sentiero che dal monastero portava a oriente, a sinistra la valle, a destra la fila di stupa, i piccoli templi a punta imbandierati di preghiere. Ho raggiunto un grande cerchio di pietra bianca. C’era un coltello, c’era  un martello, c’erano resti umani. Una mezza mandibola, un osso a forma di disco, così perfetto, mi sono fatta mille domande: chissà cos’era stato, in quale parte di corpo aveva in un’altra vita albergato. 

Dei funerali del cielo dei tibetani avevo molto letto, e molto sentito parlare. In una terra dura, difficile da scavare e avara di legname, abitata da un popolo ferrato dalle altitudini e dal credo nella reincarnazione, il funerale è il più naturale dei rituali. Il morto viene portato a spalla dalle famiglie, avvolto dentro lenzuoli bianchi. I monaci mettono il corpo a faccia in giù contro la pietra bianca. La prima a partire  è la testa: la spaccano con un colpo, affinché l’anima possa liberarsi e assumere una nuova forma. Poi tocca al fegato e al cuore, dati in pasto al più grande degli avvoltoi; poi al resto del corpo, fatto a pezzetti per i corvi.  Restano le ossa, ma anche per loro c’è una destinazione: battute con il martello, finché non diventano mangime per uccelli. 

Sono rimasta un’ora su quel disco di pietra bianca, in trance, a fissare sparuti resti umani. La testa mi girava dall’emozione. In fondo, che differenza fa se a cibarsi delle nostre spoglie sono i vermi nelle bare o i corvi sul tetto del mondo? Ma era un’altra la cosa su cui mi arrovellavo. Pensai al misticismo di un popolo che vive secondo natura, che mangia gli animali e che alla fine dagli animali accetta di essere mangiato; pensai a quanto siamo diversi noi occidentali, 

che della morte abbiamo fatto un tabù, della natura una suppellettile, della nostra onnipotenza una catena d’infelicità. 

Non so dire cosa sia stato, ma sono dovuta andare in Tibet, sopra un cerchio di pietra bianca, per fare la pace con tutti i miei morti e, perfino, con la mia mortalità. Ho preso da terra quell’osso a forma di disco, l’ho fissato, ed ho pensato fosse il mio, e mai mi sono sentita più viva, perché è solo quando accetti la tua di fine, che trovi la pace. E’ solo quando ti senti un pezzo di cielo, davvero, che non importa se nella vita hai visto l’intero mondo, o solo una montagna: sono la stessa cosa.

Kham, Tibet, 2008