Il rabdomante di cristalli
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Il rabdomante di cristalli

Tempo fa, un amico mi poneva spesso una domanda, che all’epoca non capivo. 

“Chi te lo fa fare?”

Questa domanda me la poneva ogni qual volta ritornavo da una rischiosa traversata, da una faticosa scalata. Costui era un uomo pieno di certezze, su se stesso, soprattutto, e sui suoi talenti, così certo da non lasciare che la vita lo sfiorasse, così cieco, da non vedere il prato che ci feconda.

Cercavo di spiegargli che era solo dando la caccia al vento, che abbracciavo me stessa, che quello che lui chiamava logorio era il tango che mi dava la sveglia. Gli dicevo che ognuno di noi si porta dentro un seme, il difficile è scoprire in quali misteriose condizioni il gran signore,  la gran signora, che ci portiamo dentro, emerge con forza da un lungo sonno. 

Di cosa abbiamo bisogno per riconoscere quanto possiamo esser grandi?

Scrivo queste parole dal deserto libico, al confine con l’Egitto, in un paesaggio minerale così arido che dopo qualche ora, di sole negli occhi, ho l’impressione di frugare nella cenere.

Eppure è in questa sospensione, in questo vuoto, che ho conosciuto, ieri, un piccolo grande uomo, di nome Majdi.  E’ scuro e smilzo e appartiene alla tribù degli Zway; è un personaggio singolare e solitario, il dolce rabdomante dell’Oasi di Cufra.

Mentre tutti trafficano in armi e droga,  lui se ne va ramengo tra le sabbie, alla ricerca di gemme, e dorme sotto un mantello di stelle. Osservandolo mi è subito chiaro che egli ha trovato il suo banchetto. E quando gli chiedo in che modo abbia capito, mi dice che tutto è successo una notte spaventosa in cui si è perso, da solo e senza acqua, e che alla fine, costretto  a superare se stesso, ha accettato la sete e visto, per la prima volta, la bellezza infinita del suo deserto. 

Da allora, sono passati 15 anni, ed è così sereno che se un fulmine lo colpisse su questa sedia di plastica, i suoi resti fumanti ne riderebbero, poiché Majdi è il deserto e il deserto è Majdi, sono due rami dello stesso albero. 

E’ una vita grama e dura, di questi tempi in Libia il suo bottino non lo vende, ma non lo fa per i soldi, lo fa per la verità che nasce in lui quando, all’alba, beve la rugiada che si raccoglie sul suo telo. 

Spesso, dalle parti del Monte Abdel Malik, all’altezza della porta Fathat al Fujuz, passano le jeep cariche di hashish dei Tuareg, e quelle gremite di migranti dei Tebu.

Majdi li segue con lo sguardo, brevemente, per ritornare alla sua vita, al suo alimento.

Prima che io parta,  mi regala dei cristalli.  Sono di diverse forme; uno, con i contorni dell’Africa, gli piace così tanto che ci ha fatto un buco e ci ha infilato una cordicella e mi ha detto tieni, se ti piace portalo con te. E’ puro, è nitido, e avrà un migliaio di anni.

Oasi di Kufra, 2014