Khalas el Harb
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Khalas el Harb

Il ronzio è fioco, un brusio dentro una conchiglia. L’odore è dolciastro, lievemente chimico, di lubrificante per armi. 

Sono arrivata al fronte, su strade devastate, costeggiate da cadaveri. Ci siamo persi più volte e in quel girovagare ho pensato alle scarpe nuove che avrei comprato in Italia. Ho pensato alla marca e al colore e alle corse che avrei fatto sull’Appia Antica all’alba. 

E’ che ho bruciato le scarpe. 

Hanno acceso un fuoco, dentro un bidone, con le sedie di una casa abbandonata. Ho posato i piedi sul bidone, per riscaldarmi, e la gomma si è liquefatta. 

Un ragazzino imberbe, un biondino di neanche quindici anni, ha riso della mia svagatezza, un riso stridulo; dopo di che si è piegato su un vecchio mortaio cinese e ha sparato. 

“Siete matti”, dico.  

Non per l’attacco, bensì per l’orario. E’ mezzogiorno, il sole un disco sbiadito sul fango della Siria. Una delle leggi della vita è che a un’azione segue sempre una reazione. Se c’è fuoco in uscita ci sarà fuoco in entrata. Il male che fai ti ritorna. 

Mi perdo nelle mie ruminazioni quando noto un quadro: ai piedi del biondino c’è un tappeto di bossoli di rame adagiato su fiorellini viola. 

“Anche in guerra la natura commuove”, penso ma è un pensiero veloce poiché all’improvviso atterra un missile e un miliziano grida. Succede tutto molto in fretta, il sibilo, lo sbuffo della terra, lo sgommare di un’auto che evacua il ferito. 

Tutto molto normale, sul fronte Nordorientale. 

Trovo riparo dietro il muro della casa di campagna; le sedie ardono e non mi posso sedere.  

Squilla il telefono e qualcuno, dall’Italia, dal centro di Milano, da un ufficio elegante, mi chiede come va? Penso alla bizzarria del momento, un incrocio del meglio e del peggio dell’umanità. 

“La situazione è fluida”, bofonchio riattaccando.   

E’ arrivato, intanto, un pezzo d’artiglieria, uno stagionato cannone la cui bocca scaglia palle incendiarie, e questo pezzo è ora a una cinquantina di metri dalla mia posizione e il peshmerga fa fuoco senza avvisarmi ed è come se un boato squarciasse il mio cranio. 

E’ buffo scrivere queste parole ma quel soldato, che ho odiato, avrei un giorno ringraziato, è con il tempo che apprezziamo il significato di quel che ci accade.   

Al salvo in Italia, mi sottopongo a un esame strano, un audiometro. 

Avviene dentro una cabina insonorizzata, con delle cuffie in testa e un medico che pare un direttore d’orchestra. L’otorino mi fa ascoltare tamburi e violini e decreta che la guerra mi ha portato via la capacità di sentire le frequenze alte: Paganini. Suggerisce, per evitare sordità più gravi, di evitare nuove sortite mediorientali. 

Lo guardo, stordita. 

Credo di aver capito. 

E’ stato alla fine il mio corpo a decidere, sono stati i miei timpani a tracciare il confine. 

Khalas al harb. 

La guerra è finita. 

Kobane, 2015